giovedì 25 novembre 2010

Sineddoche:proemio




Qualche tempo fa Cinzia ha deciso di occupare questo piccolo spazio virtuale. Montare un blog non è un fatto che presenta grandi difficoltà logistiche, dato che il web pullula ormai di milioni di celle vuote pronte ad essere abitate e arredate secondo i propri personalissimi gusti ( se si è abili conoscitori dell’html ci si può costruire da soli i mobili, altrimenti ci si affida ai layout predefiniti, una specie di Ikea virtuale per cui se sei amante della musica metti uno sfondo pieno di semicrome danzanti, se sei un astrofilo o hai la tendenza a fissare il cielo a bocca aperta ne metti uno tutto punteggiato di stelle, e se sei un bibliofilo accanito con ambizioni letterarie ne piazzi uno che riproduce il meraviglioso dorso dei libri in una biblioteca, che è il caso di questo blog ), ma certo, per decidersi a costruire un blog che abbia una sostanza, dei contenuti, una linea editoriale e una continuità, bisogna essere piuttosto risoluti. Difatti, quando Cinzia mi ha informato della sua decisione invitandomi a partecipare a questo progetto, non solo ho esitato, ma le ho esposto chiaramente le mie numerose riserve. Devo essergli sembrato un vecchio bisbetico in un corpo di giovane.
La questione è: che senso ha aprire un altro blog, oggi? Che cosa può aggiungere alla sconfinato catalogo  che esiste già? La sbalorditiva pletora di blog che popola il web - per quanto intelligenti e sagaci e utili - è qualcosa che stenta a trovare l’orizzonte di un significato, almeno nel corpo rosa e molle racchiuso nella mia durissima calotta cranica, e non di rado mi provoca tutta una serie di disturbi che non trovano ancora una precisa collocazione nel tradizionale canone medico, e che hanno perlopiù a che vedere con l’ansia mortale che accompagna la sensazione di perdersi qualcosa, e qualcos’altro, e qualcos’altro ancora. E’ una compulsione tipica del web, quella di voler seguire e controllare tutto, ed è facile ridursi ad occupare una giornata intera leggendo solamente giornali online, siti di critica e svariati blog: qualcosa che da le vertigini . Quello che mi sembra più evidente e indisponente, poi, è che un sistema del genere non pare incentivare la nascita di grandi talenti letterari, e per quanto si possa essere degli eccellenti blogger ( E ce ne sono così tanti da restare a bocca aperta: perché non scrivono romanzi ? Perché non provano a pubblicare? Dove sono?  ), è difficilissimo che si sia altrettanto capaci come scrittori: è una constatazione semplice a sostegno della quale si possono addurre prove inoppugnabili che ci vengono dritte dritte dalle note biografie dei talenti più grandi della narrativa contemporanea: Pynchon evita di farsi vedere in faccia, Cormac McCarthy si lascia intervistare raramente, Foster Wallace non possedeva neanche la casella e-mail. E’ come se questi scrittori avvertissero che dietro la possibilità di una comunicazione integrale ci sia una rarefazione di idee e messaggio che svuota poi la possibilità di una comunicazione autentica, profonda, creativa e purificata: quella a cui applicano la loro arte. Una convinzione, d’altronde, che scaturisce direttamente dalla pratica della scrittura, così bisognosa di un isolamento totale da arrivare ad assomigliare ad una trance medianica. Niente a che vedere con gli scambi immediati che internet garantisce. Una questione pratica: come posso io aprire il mio word e buttare giù un testo quando sullo stesso schermo ho la possibilità di dialogare e fare lo scemo con un mio giovane e-pen friend della Papua Nuova Guinea? E se nel frattempo mi arriva una mail ? E ci sarà mica qualche notifica su Facebook? Tutto questo mi richiede una considerevole dose di resistenza. La solitudine implica una grande fatica, e anche la resistenza, e anche la mancanza di solitudine. E’ un trappolone.
Ma sono qui e ho accettato. Perché? Mi è venuto in mente che un valido motivo per tenere un giornaletto online potrebbe essere, ad esempio, quello di imparare a scrivere. E dal momento che non penso di saperlo fare tanto bene, la pressione narcisistica si può rivelare un efficace incentivo.  Secoli di letteratura si sono dipanati sotto le spinte di questi irrazionali fattori motivanti: secondo fra tutti, l’amore. Primo fra tutti, l’amore non corrisposto. Ogni tanto anche l’uomo più intelligente ha bisogno di un motivo molto stupido per dare il meglio di sé. Ma forse bisognerebbe capire cosa intendo quando dico “imparare a scrivere”. Quello che intendo è scrivere in modo semplice e irreprensibile. C’è bisogno di anni di training per giungere anche solo alla consapevolezza che la buona scrittura non è la scrittura ampollosa e arzigogolata e molto spesso sibillina del vuoto criticismo accademico. La buona scrittura è un discorso, e la sua qualità è direttamente proporzionale alla possibilità che quello stesso discorso risulti piacevole all’orecchio. Potete provare, ad esempio, a recitare a voce alta il brano di un libro che amate. Sentirete il piacere crescere e amplificarsi. Non penso di parlare soltanto a nome mio quando lamento il fatto di essermi barcamenato per  quattro anni ( il mio percorso è ormai quasi concluso ) fra un’aula universitaria e l’altra cercando disperatamente qualcuno che mi desse gli strumenti necessari ad esprimere correttamente un pensiero. Non ho trovato quasi nessuno. Certo, dire che l’ambiente accademico manca di fantasia non solo finisce per essere un cliché, ma soprattutto rischia di essere un cliché dimezzato. L’altra verità che dovrebbe cronicizzarsi nella forma del cliché è che l’ambiente accademico italiano soffre disperatamente la mancanza di rigore. E vi prego di non interpretare questa mia affermazione come lo sfogo di un vecchio bacchettone. Il rigore è l’unica cosa capace di dare divertimento: si tratta di cominciare a studiare un testo non dalla sua analisi critica, ma, somma banalità, dal testo stesso. Si tratta poi di prendere quel testo e smembrarlo. Ma non per farne esperimenti teorici standard. Piuttosto per tagliarlo a fette sottilissime da infilare sotto la lingua per gustarne l’effondersi del sapore dentro tutta la cavità orale. Essere rigorosi, per me, significa fare così.
Ho deciso che farò così anche qui, con questa piccolissima e saltuaria rubrica che voglio chiamare sineddoche. Prenderò brani, episodi, descrizioni, dialoghi, esperienze, impressioni a cui si aggrappa ostinatamente un pensiero, e ne parlerò brevemente, come in una specie di diario letterario. Li sminuzzerò: la parte per il tutto. Temo addirittura che questo già di per sé breve brano di presentazione finirà per essere il più lungo che mi capiterà mai di scrivere qui. Le motivazioni che mi spingono ad agire così non sono però esclusivamente estetiche: credo che la stesura di una recensione organica sia al di là delle mie possibilità pratiche. Non lo so fare, e forse non amo troppo farlo. O forse non sono capace di condensare troppi imput in una recensione sintetica, perché tendo a prendere tutto molto sul serio. Quello che posso fare è scrivere un brano che sia focalizzato su un aspetto specifico di una cosa, senza troppi preamboli, quasi allusivamente rispetto al corpo di cui fa parte. Come un frammento di un saggio che, naturalmente, non scriverò mai.
Eccoci allora nel nostro piccolo studio virtuale, occupato e pian piano abbellito con grazia naive: abbiamo usato le pagine di vecchi libri gialli comprati al mercatino come carta da parati, e sopra le nostre dozzinali scrivanie in truciolato raccogliamo motivazioni. Una di queste dice: “ Gli apprendisti sono i benvenuti “. Sembra che stia per arrivarne un terzo, e la faccenda potrebbe farsi molto divertente.           

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