lunedì 29 novembre 2010

Sineddoche: “ E c’è qualcuno che mi chiama scemo…” - Una difesa di M. Night Shyamalan





Una premessa: questa che state per leggere voleva essere una nota. Redigendola, mi sono accorto che stavo scrivendo un breve saggio. Tanto meglio. Ho tradito subito i miei propositi. In un testo che si apre parlando del tradimento mi pare il massimo che potessi fare. Chi arriverà a capo di questo coso finirà dritto nel listino di gente a cui voglio un sacco bene.



Il mondo si muove per amore: si inginocchia davanti ad esso ammirato.
M.Night Shyamalan – The Village


A chi si sente tradito - dal momento che non lo ammetterebbe mai - risulta arduo comprendere che l’esperienza del tradimento è frutto di un trauma emotivo: non ci si può sentire traditi senza essere stati in qualche modo innamorati o anche solo superficialmente invaghiti. Questo trauma è figlio di un’aspettativa frustrata, un incontro mancato col nostro oggetto d’amore, perdipiù  facilmente alimentato da quell’insidiosa specie di odio di cui è imbevuta ogni pura devozione amorosa, il sentimento di invidia che a guardarlo bene esprime senza censure il desiderio di annullarsi nell’altro, di ricalcare, essere, sostituire la persona che amiamo: poter essere l’altro è una maniera di adorare l’amore che solo noi crediamo di essere capaci di tributargli. Così, quando l’amato fedifrago finisce in disgrazia, non c’è niente di più piacevole che alimentarne spietatamente lo sprofondamento.  Da qualche anno, e in maniera acuta da qualche mese, M.Night Shyamalan è l'oggetto di questo spiacevole tipo di attenzione  che culmina nel goliardico cinismo umoristico americano e nell’ impietoso accanimento sul cadavere, qualche giorno fa vigliaccamente esperito dal meno talentuoso degli attori hollywoodiani (probabilmente per questo più incline al tipo di meschinità in esame ) - e io ho fatto della sua risoluta difesa un motivo di principio. Primo, perché Shyamalan è un grandissimo regista. Secondo,perché è ostinatamente fedele ai suoi principi di artista. Terzo, perché è un uomo che va pesantemente controcorrente, e se offre consolazioni non lo fa in maniera ruffiana, ma costringendo lo spettatore ad interrogarsi sulle cose che nella vita contano veramente. Quarto, perché fa tutto questo in quella maniera naif che risulta deliziosa. Quinto, perché non mi piace il bullismo letterario, e meno ancora quello critico, e meno ancora quello blogger. E’ deprecabile. Non mi piace il bullismo tout court, a dire il vero, e ho sempre considerato il bullo un essere umano senza nerbo, privo di autonomia di giudizio, un povero inetto. Presi dall’invasamento isterico dell’amante tradito, i critici cinematografici e i cinebloggers, di fronte a due prove che hanno suscitato perplessità ( Lady in the water, The Happening ) e ad un fiasco conclamato ( The Last Airbender ), dandosi di gomito e rivoltando accuratamente il proprio pomodoro nel palmo della mano per vedere di spiaccicarlo bene sulla faccia di uno Shyamalan costretto alla gogna, e aderendo al comitato licenziamoci-dal-lavoro-e-passiamo-le-giornate-a-trollare-in-ogni-forum-di-internet-che-Shyamalan-dovrebbe-smettere-di-lavorare-un-po’-come-abbiamo-fatto-noi, facendo tutto questo con quel vile coraggio che cresce nutrito dalla conformità rassicurante della pubblica opinione, facendosi cioè forza del numero, hanno iniziato a riconsiderare retroattivamente tutte le opere di Shyamalan alla luce di questa sua teofania di regista senza talento: anche quelle che hanno amato. Un comportamento assai maturo, mi pare. Al quale mi sento di replicare, ora, un po’ più coscienziosamente, con la mentalità di chi accetta che nella vita è normale essere traditi, dato che succede periodicamente: e non solo bisogna accettarlo, ma è anche utile imparare a perdonare, utile per la psiche, intendo: la nostra. Una delle solenni bagattelle che sento proferire in questi giorni da questa novella torma di collaudatori di ghigliottine per cineasti indiani, è che persino “il sesto senso” sarebbe un film da niente, se gli togliamo il twist finale. Sono aspiranti critici cinematografici a dire questo. E mi rincresce dover replicare che no, se ti sei fatto stordire solo dal twist finale, il twist a là Shyamalan, all’epoca non ancora un marchio di fabbrica, non hai preso bene in considerazione gli altri aspetti del film, e che no, non sarai mai un critico cinematografico, e forse un giorno siederai morto di sonno alle due di notte nel salottino blu di Marzullo ad esibire il tuo inglese impeccabile: e che, dio ne scampi, forse sarai sposato ad un giornalista collaborazionista obeso e barbuto con un bambino nella pancia. No, il sesto senso non è il twist finale, che rappresenta invece l’aspetto meno rilevante di quel film – e anche dei successivi. Il successo del sesto senso è dovuto alla ricchezza di sottotracce articolate su un tessuto organico di personaggi pienamente umani, cioè dotati di un’umanità non ancora avvelenata dalle tossine del postmodernismo, capaci cioè di empatia e sacrificio per gli altri, e mai dissacratori rispetto al fluire delle emozioni (sono tutti quanti personaggi capaci di piangere): non solo personaggi torniti, ma personaggi che assomigliano un po’ alle persone che vorremmo essere, e che in fondo, un po’, siamo. Qui è scattato il sentimento amoroso, qui si è radicato l’odio che oggi imperversa. Shyamalan parlava ad ognuno di noi, e con tale sincerità d’animo, da lasciarci struggere nei meandri di sentimenti potenti come la paura infantile, l’amore filiale, l’amore coniugale. Ecco che cosa ci diceva: ci diceva tutto ciò che è necessario per sentire la vita, per sentirla propria ma anche condivisa con gli altri, senza paura, nell’intimità.  Non è solo il twist. No. La forza dei suoi primi quattro film era quella di accumulare, nel dipanarsi di una parabola affabulatoria, questioni cruciali, fondamentali, salvifiche, essenziali, facendole aderire perfettamente l’una all’altra. Potremmo addirittura fare un piccolo elenco di cose che Shyamalan ci ha detto nei suoi primi quattro film. 

Elenco di cose che Shyamalan ci ha detto nei suoi primi quattro film:

Il sesto senso:

- Che un dono è al contempo una maledizione.
- Che la paura è occasione di verità.
- Che quando aiutiamo, allo stesso tempo stiamo chiedendo aiuto.
- Che quando chiediamo aiuto, otteniamo di aiutare, allo stesso tempo.
- Che niente è esistenzialmente più lenitivo di un amore autentico.
- Che dobbiamo continuamente valorizzare questo amore quando siamo ancora da questa parte.
- Che, se vogliamo essere accettati, siamo costretti a fingere.
- Che possiamo imparare a fingere solo dopo aver scoperto qual è la sostanza di ciò che siamo costretti a nascondere.

Unbreakable:

- Che non si può aggirare il destino che ci è stato assegnato.
- Che padroneggiare un dono è un nostro preciso dovere.
- Che se il dono cova dentro di noi, finisce per avvelenarci: Il dono è un pharmakon e deve essere sacrificato attraverso l’espulsione.
- Che non possiamo eludere il dono neanche in ragione di un altissimo fine ( L’amore, ad esempio).
- Che non approdiamo ad una piena realizzazione senza passare per le zone buie della coscienza.
- Che i figli hanno una così alta considerazione dei padri, da essere disposti al parricidio.
- Che il cuore di un carnefice è sempre pieno di grida di sofferenza.
- Che capire qual è il nostro posto nel mondo è il fine ultimo ( e il mezzo ) della nostra vita.
- Che per scoprirlo, dobbiamo confrontarci con ciò che è altero: il nostro modellamento avviene per mezzo di ciò che ci è completa.

Signs:

- Che i guasti delle dinamiche affettive conducono ad un’alienazione totale: potenzialmente più dannosa di una concreta invasione aliena.
- Che l’uomo che smarrisce il cammino è destinato a ripercuotere il suo dramma sull’intera comunità: perché si viva in pace è necessario che ognuno trovi la sua vocazione.
- Che la fede è un mezzo percettivo: serve a riconoscere ciò che è fondamentalmente nascosto davanti ai nostri occhi ( La mazza da baseball )
- Che l’espressione più dignitosa dell’uomo è sempre il risultato di una fede.
- Che anche la minaccia più inattesa e incomprensibile viene ristrutturata nel momento in cui si abbatte contro la nostra ritrovata convinzione: si scioglie ( Gli alieni sono sensibili all’acqua e la terra è composta per due terzi di acqua: gli anticorpi erano molto più forti dei virus, ma erano debilitati ).
- Che le parole più banali possono assumere i caratteri di un’epifania nei momenti cruciali.

The Village:

- Che il paternalismo è una forma di potere di facile degrado.
- Che la volontà di preservare dal dolore conduce a maggior dolore.
- Che ad un certo grado di paura, corrisponde un proporzionale grado di curiosità.
- Che pensiamo entro i confini di ciò che sperimentiamo.
- Che se siamo mossi da vera carità, niente potrà impedire che essa si affermi.
- Che l’innocenza è il più colpevole dei sentimenti.
- Che la natura di un amore autentico è determinata dalla capacità di sacrificio che la pervade.

Ma non è solo una questione tematica: ciò che colpisce di questi film, è l’abilità stilistica con cui Shyamalan tesse il suo canto. Il cinema di M.Night è un congegno collaudato alla raffinatezza estetica: non c’è un aspetto tecnico delle sue pellicole che non rasenti la perfezione e non sia curato con maniacalità: inquadratura, movimenti di macchina, musica, sonoro, fotografia, gestione delle tonalità cromatiche in funzione simbolica, direzione degli attori. E ciò che più importa è che tutto quanto venga fatto al servizio del raccontare una storia: il primo pensiero non è mai quello di una esposizione didascalica di temi portanti. Ci si concentra sulla qualità del narrato, che in questo modo è capace di sprigionare polisemia. Shyamalan si rende inoltre riconoscibile riscrivendo la tradizione cinematografica di Spielberg ( per temi e vezzi narrativi - i bambini come sognatori ) e Hitchcock ( nella costruzione low cost della suspence, nel prassi della comparsata ), riesce cioè ad inserirsi autorialmente nel solco di una tradizione. E’ lì che, secondo me, cominciano i guai: quando Shyamalan diventa consapevole dei suoi mezzi e dei messaggi che affida alle sue storie. Non è proibito farlo, ma la personalità di un autore deve essere abbastanza forte da sostenere il peso dell’autocritica: non tutti gli autori ne sono capaci, per fortuna, e dovrebbero capirlo ( Fellini, ad esempio, era uno di questi ).  Con “Lady in the water” e “The happening” il meccanismo affabulatorio  si inceppa, e Shyamalan incappa nelle perigliose acque dell’autoesegesi, cominciando a giocare con i suoi temi e il suo stile. I primi si calcificano attorno al nucleo del simbolo e della responsabilità, condensando e appiattendo trama e personaggi nell’urgenza dichiarativa del messaggio ( E’ il caso di Lady in the water, in cui i caratteri vengono ridotti a pedine di un gioco di ruolo in una maniera tanto superficiale e frettolosa da privare il messaggio stesso della sua forza intrinseca ). Il secondo, lo stile, si converte in maniera, finendo per far apparire desuete e consolidate una serie di  formule autoriali che pochi anni prima erano state avvertite come rivoluzionarie: in “The happening” le figurine che fuggono dalla minaccia invisibile sono prigioniere della maniera: il fuoricampo ( strumento prediletto di Shyamalan ) come espressione di una minaccia, la tecnica del demiurgo assurta ad antagonista: sotto questo aspetto “The happening” mostra un lato molto interessante. Se il caso di “The last airbender” in apparenza può sembrare eccentrico rispetto al percorso involutivo descritto finora, dimostra invece la massima cronicizzazione di questo processo: l’attenzione maniacale ai temi che si vogliono veicolati dalla storia porta la storia stessa a morire di inedia narrativa, costretta a spiaggiarsi in episodi drammaturgicamente insignificanti e che portano con sé una sbalorditiva perdita di attenzione al senso. In questo disinteresse della maniera più efficace di avvincere lo spettatore, il film si adopera in espedienti platealmente anti-cinema: ad esempio, il fatto che l’avatar molto spesso non sia il centro dell’azione, ma il motore spirituale del risveglio delle tribù sottomesse è un fatto anti-cinema: sullo schermo difficilmente funziona.

[ Non vorrei peccare di presunzione, ma le due storie più acclamate di Shyamalan mi sembrano, tra le altre cose, espressione di una ispirazione sincera e “obbligata”, quasi il frutto di una necessità: il ragazzino del sesto senso, il supereroe di Unbreakable, tutti e due costretti a maneggiare il proprio potere consapevolmente per non cadere in tristezza e disperazione, non sono forse Shyamalan stesso che sogna il cinema in una famiglia dove tutti sono per tradizione dottori in medicina e lui stesso è ormai destinato ad una brillante carriera di medico ? E’ forse anche questo lo scarto che avvertiamo quando decidiamo che Il sesto senso e Unbreakable sono i capolavori di Shyamalan? Il fatto che stia parlando di sé? ]

C’è poi questo Devil, primo capitolo di una trilogia che Shyamalan ha scritto e prodotto, affidando la regia a giovani talenti del genere. Tutte le cose dette si possono ribadire ( Basti pensare che il breve lungometraggio include due citazioni esplicite di “The happening” e “Signs” ). Ma c’è una cosa che mi interessa di più. Uno dei motivi per cui Shyamalan finisce per risultare così antipatico è il suo divertito e fiero anacronismo: l’accusa che più gli muovono è di non avere senso dell’umorismo. Il problema non è che Shyamalan non possieda il senso dell’umorismo; il problema è che non possieda il senso dell’umorismo che gli si chiede di possedere. Il suo è un umorismo diverso, non mainstream. Ha una natura che non è mai nichilista. E’, cioè , un umorismo di controtendenza, posseduto da una speranza che mostra ancora il volto di un essere umano. Il volto umano invece del nulla, non il vacuo sotto la maschera, ma un’essenza. E’ riso, non scherno. Tutto questo, ai più, risulta inaccettabile. L’umorismo a cui siamo abituati, l’umorismo televisivo, è così dissacratorio che spinge ai limiti dell’annichilimento ogni cosa su cui possiamo fermarci a riflettere. Quel che è peggio, è che è sempre, in ogni caso, subìto: anche quando si crede di cavalcarlo. La sua natura degradante è rimossa così come è rimossa l’idea della nostra inevitabile mortalità, restituendoci il piacevole stordimento di una adolescenziale spensieratezza: posticcia; e temporanea, naturalmente. La cosa curiosa di questo film che parte da un assunto rispetto al quale è difficile richiedere, oggi, una efficace sospensione dell’incredulità  ( Il diavolo che resta bloccato in un ascensore ), è che si applica dall’inizio alla fine in un tentativo semidisperato di coinvolgere lo spettatore nelle vicende narrative sciogliendolo dal peso di una coscienza critica: cioè è un tentativo di totale fascinazione, di restituzione ad un piacere infantile della visione, incantato e senza sovrastrutture. Quindi non è né l’assunto morale né quello spirituale ad avermi colpito di questo filmetto, quanto il suo tentativo di stabilire un contatto su una materia potenzialmente risibile. Come ci riesce? Affidando il compito di estensore del racconto ad un personaggio - un ispanico superstizioso - che intenerisce con la sua ingenua credulità e depriva dell’enfasi i momenti dove il dramma sovrannaturale raggiunge i suoi apici. Nella sua opera apparentemente disingannante, l’ispanico arriva addirittura a demolire la suspense in partenza, palesando così il compito che gli è assegnato: il puro e semplice narrare una storia. Quando tutti dubitano, la sua maniera di credere è ridicola ( La presenza del diavolo è convalidata dalla realizzazione della legge di Murphy circa la fetta di pane imburrata ), quando accade qualcosa di spaventoso, diventa involontariamente comico. La tensione si è rotta? Forse, perché la sala ride anche quando il canone dell’ horror non lo richiederebbe, profanandone gli attimi sacri, ma si trova improvvisamente catapultata nella storia. L’ispanico è un personaggio simpatetico. Si, quello che accade è che tutti sono confluiti di nuovo nella pura affabulazione. Shyamalan ha gabbato la sala, e malgrado resistenze e tentennamenti, ha convertito gli scettici alla fede nella storia che ha scritto. E’ un esercizio di funambolismo. Difficilissimo. Con Devil il cinema di Shyamalan mi è parso ingaggiare una lotta per la sua stessa sopravvivenza, e per la sopravvivenza del cinema tutto.

Il problema è che, una volta che le regole dell’arte sono state smantellate, e una volta che le sgradevoli realtà diagnosticate dall’ironia sono state rivelate in pieno, a quel punto che facciamo? […] A quanto pare, vogliamo solo continuare a mettere in ridicolo la realtà. L’ironia e il cinismo postmoderni diventano fini a se stessi, una misura della sofisticatezza e della spregiudicatezza letteraria degli scrittori. Pochi artisti osano parlare dei modi in cui si possa tentare di aggiustare quello che non va, perché rischiano di apparire sentimentali e ingenui agli smaliziati ironisti. L’ironia si è trasformata da un mezzo di liberazione in un mezzo di schiavitù.

David Foster Wallace

             


giovedì 25 novembre 2010

Sineddoche:proemio




Qualche tempo fa Cinzia ha deciso di occupare questo piccolo spazio virtuale. Montare un blog non è un fatto che presenta grandi difficoltà logistiche, dato che il web pullula ormai di milioni di celle vuote pronte ad essere abitate e arredate secondo i propri personalissimi gusti ( se si è abili conoscitori dell’html ci si può costruire da soli i mobili, altrimenti ci si affida ai layout predefiniti, una specie di Ikea virtuale per cui se sei amante della musica metti uno sfondo pieno di semicrome danzanti, se sei un astrofilo o hai la tendenza a fissare il cielo a bocca aperta ne metti uno tutto punteggiato di stelle, e se sei un bibliofilo accanito con ambizioni letterarie ne piazzi uno che riproduce il meraviglioso dorso dei libri in una biblioteca, che è il caso di questo blog ), ma certo, per decidersi a costruire un blog che abbia una sostanza, dei contenuti, una linea editoriale e una continuità, bisogna essere piuttosto risoluti. Difatti, quando Cinzia mi ha informato della sua decisione invitandomi a partecipare a questo progetto, non solo ho esitato, ma le ho esposto chiaramente le mie numerose riserve. Devo essergli sembrato un vecchio bisbetico in un corpo di giovane.
La questione è: che senso ha aprire un altro blog, oggi? Che cosa può aggiungere alla sconfinato catalogo  che esiste già? La sbalorditiva pletora di blog che popola il web - per quanto intelligenti e sagaci e utili - è qualcosa che stenta a trovare l’orizzonte di un significato, almeno nel corpo rosa e molle racchiuso nella mia durissima calotta cranica, e non di rado mi provoca tutta una serie di disturbi che non trovano ancora una precisa collocazione nel tradizionale canone medico, e che hanno perlopiù a che vedere con l’ansia mortale che accompagna la sensazione di perdersi qualcosa, e qualcos’altro, e qualcos’altro ancora. E’ una compulsione tipica del web, quella di voler seguire e controllare tutto, ed è facile ridursi ad occupare una giornata intera leggendo solamente giornali online, siti di critica e svariati blog: qualcosa che da le vertigini . Quello che mi sembra più evidente e indisponente, poi, è che un sistema del genere non pare incentivare la nascita di grandi talenti letterari, e per quanto si possa essere degli eccellenti blogger ( E ce ne sono così tanti da restare a bocca aperta: perché non scrivono romanzi ? Perché non provano a pubblicare? Dove sono?  ), è difficilissimo che si sia altrettanto capaci come scrittori: è una constatazione semplice a sostegno della quale si possono addurre prove inoppugnabili che ci vengono dritte dritte dalle note biografie dei talenti più grandi della narrativa contemporanea: Pynchon evita di farsi vedere in faccia, Cormac McCarthy si lascia intervistare raramente, Foster Wallace non possedeva neanche la casella e-mail. E’ come se questi scrittori avvertissero che dietro la possibilità di una comunicazione integrale ci sia una rarefazione di idee e messaggio che svuota poi la possibilità di una comunicazione autentica, profonda, creativa e purificata: quella a cui applicano la loro arte. Una convinzione, d’altronde, che scaturisce direttamente dalla pratica della scrittura, così bisognosa di un isolamento totale da arrivare ad assomigliare ad una trance medianica. Niente a che vedere con gli scambi immediati che internet garantisce. Una questione pratica: come posso io aprire il mio word e buttare giù un testo quando sullo stesso schermo ho la possibilità di dialogare e fare lo scemo con un mio giovane e-pen friend della Papua Nuova Guinea? E se nel frattempo mi arriva una mail ? E ci sarà mica qualche notifica su Facebook? Tutto questo mi richiede una considerevole dose di resistenza. La solitudine implica una grande fatica, e anche la resistenza, e anche la mancanza di solitudine. E’ un trappolone.
Ma sono qui e ho accettato. Perché? Mi è venuto in mente che un valido motivo per tenere un giornaletto online potrebbe essere, ad esempio, quello di imparare a scrivere. E dal momento che non penso di saperlo fare tanto bene, la pressione narcisistica si può rivelare un efficace incentivo.  Secoli di letteratura si sono dipanati sotto le spinte di questi irrazionali fattori motivanti: secondo fra tutti, l’amore. Primo fra tutti, l’amore non corrisposto. Ogni tanto anche l’uomo più intelligente ha bisogno di un motivo molto stupido per dare il meglio di sé. Ma forse bisognerebbe capire cosa intendo quando dico “imparare a scrivere”. Quello che intendo è scrivere in modo semplice e irreprensibile. C’è bisogno di anni di training per giungere anche solo alla consapevolezza che la buona scrittura non è la scrittura ampollosa e arzigogolata e molto spesso sibillina del vuoto criticismo accademico. La buona scrittura è un discorso, e la sua qualità è direttamente proporzionale alla possibilità che quello stesso discorso risulti piacevole all’orecchio. Potete provare, ad esempio, a recitare a voce alta il brano di un libro che amate. Sentirete il piacere crescere e amplificarsi. Non penso di parlare soltanto a nome mio quando lamento il fatto di essermi barcamenato per  quattro anni ( il mio percorso è ormai quasi concluso ) fra un’aula universitaria e l’altra cercando disperatamente qualcuno che mi desse gli strumenti necessari ad esprimere correttamente un pensiero. Non ho trovato quasi nessuno. Certo, dire che l’ambiente accademico manca di fantasia non solo finisce per essere un cliché, ma soprattutto rischia di essere un cliché dimezzato. L’altra verità che dovrebbe cronicizzarsi nella forma del cliché è che l’ambiente accademico italiano soffre disperatamente la mancanza di rigore. E vi prego di non interpretare questa mia affermazione come lo sfogo di un vecchio bacchettone. Il rigore è l’unica cosa capace di dare divertimento: si tratta di cominciare a studiare un testo non dalla sua analisi critica, ma, somma banalità, dal testo stesso. Si tratta poi di prendere quel testo e smembrarlo. Ma non per farne esperimenti teorici standard. Piuttosto per tagliarlo a fette sottilissime da infilare sotto la lingua per gustarne l’effondersi del sapore dentro tutta la cavità orale. Essere rigorosi, per me, significa fare così.
Ho deciso che farò così anche qui, con questa piccolissima e saltuaria rubrica che voglio chiamare sineddoche. Prenderò brani, episodi, descrizioni, dialoghi, esperienze, impressioni a cui si aggrappa ostinatamente un pensiero, e ne parlerò brevemente, come in una specie di diario letterario. Li sminuzzerò: la parte per il tutto. Temo addirittura che questo già di per sé breve brano di presentazione finirà per essere il più lungo che mi capiterà mai di scrivere qui. Le motivazioni che mi spingono ad agire così non sono però esclusivamente estetiche: credo che la stesura di una recensione organica sia al di là delle mie possibilità pratiche. Non lo so fare, e forse non amo troppo farlo. O forse non sono capace di condensare troppi imput in una recensione sintetica, perché tendo a prendere tutto molto sul serio. Quello che posso fare è scrivere un brano che sia focalizzato su un aspetto specifico di una cosa, senza troppi preamboli, quasi allusivamente rispetto al corpo di cui fa parte. Come un frammento di un saggio che, naturalmente, non scriverò mai.
Eccoci allora nel nostro piccolo studio virtuale, occupato e pian piano abbellito con grazia naive: abbiamo usato le pagine di vecchi libri gialli comprati al mercatino come carta da parati, e sopra le nostre dozzinali scrivanie in truciolato raccogliamo motivazioni. Una di queste dice: “ Gli apprendisti sono i benvenuti “. Sembra che stia per arrivarne un terzo, e la faccenda potrebbe farsi molto divertente.           

domenica 21 novembre 2010

Bowles teologico: The Sheltering Sky (Il tè nel deserto)


Paul Bowles, Il tè nel deserto, Feltrinelli, Milano, 2008


Padre della Beat Generation americana, Paul Bowles scrisse questo romanzo The Sheltering sky (tradotto forse con troppa licenza poetica ne Il tè nel deserto) nel 1949 a Tangeri dove si era appena trasferito con la moglie. Divenuto inaspettatamente best-seller mondiale il libro è di pregevole fattura, lasciando ampio spazio all’esotico respiro dell’Africa, ma impedendo così di caratterizzare alcuni personaggi chiave del romanzo abbandonandoli (credo volutamente) a semplici dipinti sullo sfondo.
Il romanzo narra della drammatica avventura di una coppia americana Port e Kit. Port ha lasciato New York, nel secondo dopoguerra, per fare un viaggio in Nord Africa con sua moglie Kit e il suo amico George Tunner. Essi si considerano viaggiatori e non turisti, infatti, non sanno dove si fermeranno, per quanto tempo, e nemmeno se avranno un luogo dove fare ritorno. Nel loro viaggio scoprono un mondo e un paese culturalmente distante anni luce, dove essi sono sempre e comunque stranieri anche se accolti con un singolare calore e trasporto dagli elegantissimi abitanti del Magreb. In questa atmosfera la coppia tenta di ritrovare se stessa attraverso tradimenti, discese nell’inferno più cupo della disperazione umana e nella incomunicabilità fra uomo e donna. Port, infatti, è convinto che l’esistenza sia priva di significati, mentre Kit ne è alla continua ricerca.
Il romanzo è pregiato, alcune zone estremamente ispirate basti pensare ai titoli che suddividono i tre capitoli in cui è strutturata l’opera.  Vi sono alcune manchevolezze strutturali: il finale troppo accelerato e frenetico rispetto alla calma esistenziale del deserto e alcuni aspetti della cultura tuareg che vengono abusati e stravolti nella loro intimità sociale per creare il tocco esotico ancora troppo americano-centrico di Bowles (per fortuna andrà perdendosi dopo la permanenza assidua nel Sahara).
Il romanzo è totalmente autosufficiente rispetto alla vita dell’autore, tuttavia, vi sono alcuni aspetti che non saremmo in grado di cogliere se non conoscessimo la travagliata vicenda di Bowles e il suo viaggio parallelo alla creazione del libro: il disvelarsi della sua omosessualità. In questo romanzo l’omosessualità è percettibile solo nel personaggio di contorno a cui viene affidata la parte del masochista ormai irrimediabilmente smidollato dalla madre apprensiva, e dal giovane tuareg che prende in consegna Kit dopo la dipartita da El Ga’a. Il giovane presenta alle sue innumerevoli mogli la donna travestita da giovane beduino, senza che esse si dispiacessero che passasse molto tempo con il suo nuovo amico. Lo stesso Port lascia in sospeso il rapporto con l’amico Tunner, anche se questo non esista ad insidiare Kit mentre egli viaggia separatamente dalla moglie e dall’amico. La stessa moglie di Bowles, anch’essa scrittrice, aveva avuto solo esperienze omosessuali. In alcuni tratti assistiamo alle trasposizioni nei personaggi principali di alcuni aspetti privati della coppia. I dialoghi estremamente rarefatti e sofisticati, infatti, non hanno alcuna patina di realismo ma sembrano invece funzionali ad un’analisi della vita di relazione in cui i protagonisti del romanzo sono solo semplici contenitori scenici. Bowles  negli anni successivi pubblicò diversi racconti, come l'autobiografia Without stopping (Senza mai fermarsi,che però Burroughs soprannominò Senza svelarsi ritenendola troppo reticente), libri di viaggio, poesie e soprattutto numerose "traduzioni" delle storie raccontategli dal suo nuovo amante, Mohammed Mrabet (1940-viv.), un ragazzo marocchino da lui scoperto e lanciato, con successo, come scrittore. Dal 1973 Bowles ha vissuto tranquillamente a Tangeri il resto della sua lunga vita.
Sullo sfondo di queste esperienze il romanzo resta tuttavia ancorato ad un solido senso autosufficiente. Le tre esistenze che reggono il cielo di Tangeri ci mostrano una cultura assolutamente magnifica nella sua semplicità esistenziale che è sinonimo di una eleganza rarefatta, e della difficoltà oggettiva di portare la vita in un luogo fra i più inospitali del mondo: il deserto. Il mal d’Africa è onnipresente, e come ama ricordarci Bowles, in tanta magnificenza  della potenza naturale il nostro sistema filosofico cade e non ha senso di esistere. Nel deserto dell’Africa in cui non si è mai al sicuro e la salute è minacciata in ogni cibo e in ogni acqua,  le esperienze estreme ci mostrano l’assoluta dignità della vita, la sua persistenza disperata, e la gioia per l’esistere senza potersi adagiare ad un sistema razionale. Il viaggio porterà i protagonisti a fare i conti con l’assoluto e la potenza della natura, mortale e vivissima tanto da far assumere nuova concretezza alla terra ormai da noi totalmente ammansita: “ qui il cielo è così strano, quasi solido”.

Il film



Il libro è meglio conosciuto come la trasposizione cinematografica di Bernardo Bertolucci, dove il film riesce a penetrare ancor meglio la potenza vitale e mortifera del deserto seguito dall’espressività dei silenzi e del disfacimento di ogni tentativo di caratterizzazione dei personaggi. Essi assumono piena realizzazione, e possiamo cogliere i tratti realistici ed estremi della scrittura di Bowles. Il film diventa così funzionale ad un capolavoro, forse troppo prolisso, ma così estremo a cui forse possiamo perdonare qualche piccola mancanza.
Capolavoro indiscusso è  la colonna sonora di Sakamoto: Sakamoto The Sheltering Sky



Voto libro: 8
Voto al film: 8,5

Il labirinto di Auster: La trilogia di New York


Paul Auster, La trilogia di New York, Einaudi, 2006 Torino

I racconti pubblicati per la prima volta fra il 1985 e il 1987 sono ormai un classico della letteratura americana contemporanea. La trilogia è composta da: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa.
La difficoltà di questi racconti è che non si possono definire in maniera precisa e nemmeno collocare in generi o sottogeneri, essi sono un unicum da cui non si può uscire senza aver attraversato il necessario travaglio immaginativo. Sono la cura alla nostra malata concezione di vita, al mancato silenzio che toglie concentrazione per la comprensione e l’elaborazione della realtà. Auster sa fare lo scrittore maledettamente bene proprio perché ti obbliga a seguirlo, come i suoi allucinati protagonisti; lui ti da la direzione e non ti viene mai in mente di contraddirlo. Segui le ombre di Auster, i suoi demoni interiori, la sua terribile paura della solitudine, le voci ottuse e vuote degli orpelli di una New York crudele ma ferita. I curatori dell’edizione italiana parlano di “detective stories avvincenti ed eccentriche”. Limitarli nel genere noir è un rischio, ma una buona operazione di marketing. Per chiunque voglia sperimentare il noir, direi che Auster non è decisamente lo scrittore a cui affidarsi, se non per la tensione adrenalinica e allucinata che riesce a tessere con una maestria rara.
In Città di vetro l’autore di romanzi polizieschi Daniel Quinn accetta la sfida investigativa proposta dai coniugi Stillman, essi vogliono essere protetti dal padre del giovane Stillman appena uscito dal carcere. La stravaganza è che padre e figlio portano lo stesso nome: Peter Stillman. Peter senior teologo finissimo, tenterà di riscoprire il linguaggio dell’innocenza prima che il Male si insinuasse nell’uomo e lo inducesse alla caduta dall’Eden. Il finale a sorpresa lascia il lettore spiazzato e disorientato senza alcuna certezza ma si avrà la sensazione  di aver sognato la storia o di non averla compresa fino in fondo,  elemento straniante che rientra nella poetica programmatica di questo autore.
In Fantasmi l’investigatore Blue viene assunto da White per sorvegliare un uomo Black. A seguito di controlli e pedinamenti deve offrire a White un rapporto dettagliato ogni settimana, dopo il quale giungerà un ingente assegno tale da mantenere Blue fisso sul caso. Blue accetta con malcelata gioia il compito ed inizia gli appostamenti sorvegliando Black dalla finestra di un appartamento adiacente. Ciò che sorprende Blue è che il suo uomo ha una vita terribilmente tranquilla, esso passa le sue giornate a scrivere e acquistare le provviste necessarie al super market sotto casa. Blue vivrà autentici momenti di frustrazione mentre Black continuerà a scrivere assiduamente su un taccuino rosso (elemento che ritorna sempre in tutti i romanzi della trilogia). Blue perderà totalmente la pazienza e cercherà di forzare l’appartamento scoprendo una realtà agghiacciante: chi pedina chi?
La stanza chiusa è forse il racconto chiave di tutta la produzione di Auster. Un giovane si immedesima al punto nella vita di un amico tanto da sposarne la vedova e adottarne il figlio. La psiche di Henry Dark sarà così provata da questa assenza di personale dignità da indurlo in un gesto disperato: convincersi che l’amico non è morto davvero e iniziare una ricerca spasmodica tradotta poi in una biografia postuma.  Il lettore non saprà mai se l’architettura del racconto è atta a mostrare l'autogiustificazione di Dark nell’aver rubato l’identità e la vita dell’amico o una reale ricerca dettata da un lutto mai elaborato. Nel racconto ritornano i nomi e i protagonisti dei precedenti Città di Vetro e Fantasmi.
Il filo conduttore dei racconti lo possiamo riassumere in una dichiarazione tratta da un altro importante romanzo di Auster, Leviatano (sempre edito da Einaudi):  Per me la più piccola parola è circondata da acri ed acri di silenzio, e perfino quando riesco a fissare quella parola sulla pagina mi sembra della stessa natura di un miraggio, un granello di dubbio che scintilla nella sabbia. Il silenzio è ciò che pervade ogni esperienza di Auster, ogni tentativo di esplicare il mondo. In ogni romanzo, compreso Il taccuino rosso, Moon Place, L’invenzione della solitudine, Auster ama nascondere nei libri citati una chiave di lettura indispensabile per comprendere il messaggio sotterraneo alla trama che altrimenti sembrerebbe una allucinazione gratuita senza alcuna nota di rilevanza organica ma puro virtuosismo stilistico (I libri vanno letti con la stessa cura e con la stessa riservatezza con cui sono stati scritti, Città di vetro)
La chiave di lettura è il Milione di Marco Polo (citato nel primo racconto da Quinn), celeberrimo scritto che narra il pellegrinaggio di Polo verso l’Asia passando per paesi e suggestioni cariche di paura, disorientamento, mistero e solitudine. In Invisibile il fulcro era Dante e il suo Inferno, mentre qui Auster ci affresca un contemporaneo Milione della psiche devastata dall’impoverimento culturale, dalla noia esistenziale, dalla depressione ma soprattutto dalla paranoia massima che è la fobia delle aggressioni e dell’essere al centro di cospirazioni atte a danneggiarci. Il carosello di Polo, di contrasto, ci mostra un uomo che è in grado di farsi incantare, di emozionarsi, di suggestionarsi al punto di ritenere la vita un incanto supremo, un meraviglioso gioco di Dio.  Auster usa spesso la grandiosità dei miti letterari come specchio per le nostre miserie interiori. Quando ci sediamo nella nostra interiorità, non abbiamo lo sfarzo del Milione o la ricchezza dei suoi viaggi, ben sì la stanza spoglia di Black dotati di pochi strumenti essenziali: un tavolo, un taccuino, pochi libri e una solitudine esasperante.  Auster ama ricordarci in Fantasmi: l'utopia non si trova in nessun luogo... E se l'uomo ha una possibilità di materializzare quel luogo sognato, è solo edificandolo con le proprie mani. E noi abbiamo perso ogni manualità.

Voto: 9

martedì 9 novembre 2010

Anche i gladiatori crollano, solo in Italia

Riporto una nota di Erri de Luca, apparsa su Facebook dopo il crollo della Domus a Pompei:

Chiedo all'archeologia di smettere di scavare. Quello che riporta alla luce lo guastiamo e lo mandiamo in rovina. Chiedo di ricoprire gli scavi di Pompei con cenere spenta per poterli affidare alle generazioni future che saranno costrette a essere migliori, visto che peggiori non si può. Siamo eredi senza merito e tutori di una ricchezza che appartiene all'umanità e non  alla competenza di un ministero. Questa ricchezza è quanto di meglio abbiamo da offrire al mondo e siamo responsabili di questo di fronte al mondo. L'immagine dell'Italia all'estero è sfregiata dal ridicolo di certi pruriti anziani e dall'indecente incuria della bellezza ricevuta in dote. Custodire e tramandare la bellezza è la definizione più elementare di civiltà.

For my English-speaking friends, an attempt of translation:
I ask archeology to stop digging. What brings to light,  we waste and ruin. I ask to fill the excavations of Pompeii with ash for them to entrust to future generations that would have to be better, since it cannot be worse. We are heirs without merit and guardians of a treasure that belongs to the humanity and not to the responsibility of a ministry. This wealth is the best we have to offer the world and we are responsible for this before the world. Italy's image abroad is scarred from the ridiculous of some elderly and itching indecent neglect that received beauty as a dowry. Preserve and pass on the beauty is the most basic definition of civilization.

http://www.facebook.com/profile.php?id=1276045461#!/note.php?note_id=472146247776&id=100000884713895
 
 


Metafora di uno svuotamento culturale tutto italiano, mentre le nostre librerie sono colonizzate da prodotti americani di discutibile e orribile fattura (faccio riferimento ai "romanzi" della generazione Y), anche i gladiatori  e tutta la cultura classica si ritirano come gli Dei in Irlanda.
La Dea Danna depose sullo smeraldo europeo il suo infinito e benevolo mantello per ricordare agli uomini l'importanza della Memoria, si vede che in Italia il mantello era troppo corto.
 

lunedì 1 novembre 2010

Molti anni senza, in memoria di Pier Paolo Pasolini


Alla mia nazione
 
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.






Pasolini e Ezra Pound

Pasolini e la Modernità

Pasolini intervista Ungaretti







Certe cose sono sconvolgenti e inaccettabili alla comune coscienza. La comune coscienza è inadattabile alle atrocità. E ci sarà pure qualche ragione. Forse perché essa, in realtà, le vuole. La comune coscienza prima non ha accettato le atrocità naziste, e poi ha preferito dimenticarle. Certe cose atroci architettate o comunque volute dal Potere (quello reale non quello sia pur fittiziamente democratico) sono comunissime nella storia: dico comunissime: eppure alla comune coscienza paiono sempre eccezionali e incredibili. (20 dicembre 1969)



La Verità non sta in un solo sogno ma in molti sogni

(Pier Paolo Pasolini- Il fiore delle Mille e una notte)